
Chi ricorda la riforma costituzionale del 2006? In quell’anno gli italiani furono chiamati alle urne il 25 e il 26 giugno per esprimersi sul testo varato dal governo Berlusconi l’anno precedente, che modificava in maniera sostanziale ben 53 articoli della nostra Costituzione repubblicana. All’epoca il Partito Democratico non era ancora nato, ma nell’aprile dello stesso anno il centrosinistra incentrato sull’Ulivo capitanato da Romano Prodi aveva vinto (seppur in modo piuttosto risicato) le elezioni politiche. Tutti i paludati e gradassi gerarchi di DS e Margherita, le principali formazioni che sostenevano la premiership del professore bolognese (e i cui componenti avrebbero dato vita l’anno seguente al nascituro PD), si schierarono contro con grida belluine allo stravolgimento costituzionale predisposto dal Cavaliere di Arcore soltanto qualche mese prima. A spingere per il “No”, in maniera neanche troppo velata, c’era anche un certo Giorgio Napolitano, appena salito al soglio del Quirinale per volere del Parlamento riunito in seduta comune.
Eppure quella riforma della costituzione, come oggi stanno facendo notare numerosi costituzionalisti, presenta diverse analogie con quella che stiamo discutendo oggi e che ci poterà alle urne il prossimo 4 dicembre. Se da una parte era la riforma della “devolution”, che al contrario di quella odierna aumentava sensibilmente poteri e competenze delle regioni e degli altri enti locali, presentava però anch’essa una trasformazione del Senato in maniera non troppo diversa da quella che sarà votata tra 5 settimane: la seconda camera non avrebbe più dovuto votare la fiducia al governo e sarebbe stata eletta contestualmente ai consigli regionali, di cui sarebbe stata una sorta di rappresentanza parlamentare. Per gran parte delle leggi era previsto soltanto un passaggio alla Camera, con il Senato che avrebbe dovuto limitarsi a richiederne l’esame e suggerire modifiche (un punto molto simile alla riforma di Renzi). Il Senato avrebbe avuto maggiori competenze sulle leggi riguardo le autonomie regionali.
Inoltre, al pari di quella imbastita dal governo Renzi, la riforma griffata “centrodestra” prevedeva l’istituzione di un cosiddetto “premierato forte”, allora molto voluto da Silvio Berlusconi che ha sempre accusato il sistema italiano di non attribuire poteri sufficienti al presidente del Consiglio. La riforma avrebbe avvicinato l’Italia a un modello presidenziale o semi-presidenziale, con un presidente del Consiglio scelto direttamente alle elezioni che si sarebbe insediato immediatamente, senza bisogno di chiedere la fiducia alla Camera. La riforma attribuiva al presidente del Consiglio il potere di sciogliere le camere e rendeva complicato sfiduciarlo: in sostanza, far cadere il governo avrebbe comportato quasi in ogni caso nuove elezioni. Il presidente della Repubblica sarebbe stato spogliato di quasi tutti i suoi poteri e sarebbe rimasto una figura soltanto cerimoniale (ancora più di quanto non sia oggi, insomma). La riforma prevedeva anche una modifica alla composizione della Corte Costituzionale, dove i membri nominati dalla magistratura e dal presidente della Repubblica sarebbero diminuiti a favore di quelli di nomina politica.
Insomma, se non proprio identiche, molto simili. Se all’epoca Renzi era soltanto agli albori della sua ascesa politica, vanno ricordate le facce schifite di tanti big dell’attuale PD che invece barreranno il “Sì” il prossimo 4 dicembre: da Gentiloni a Franceschini, da Fassino a Damiano (all’epoca tutti o ministri o nelle direzioni dei rispettivi partiti), fino, appunto, a Napolitano. Come è andata lo sappiamo tutti: il “no” stravinse.
Fa schiantare dalle risate che la stessa accolita, che nel frattempo ha sposato la causa renziana tranne qualche rara eccezione geriatrica (Bersani e D’alema, ndr), oggi si sbrodoli con tutti gli ossequi di fronte alla violenza testuale della nuova costituzione voluta dalla ministra Boschi con il placet dei poco raccomandabili (almeno come padri costituenti) Denis verdini e Angelino Alfano.
Non solo. Nel manifesto dei valori fondativi del Partito Democratico, nato un anno dopo quella consultazione referendaria, si possono le seguenti leggiadre parole:
“La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercè della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006”.
Capito? Difendere il testo costituzionale varato 70 anni fa era uno dei pilastri su cui poggiava la nascita del PD. Era, appunto. In barba ad ogni forma di coerenza, ora questi cultori del “è tutto bello, è tutto figo”, ci spingono invece alla demolizione della nostra Carta. Quello che era buono ieri, è cattivo oggi: ciò dà il polso del delirio di onnipotenza di Renzi e dei suoi scagnozzi.
Per questo il 4 dicembre è importante VOTARE NO. Dare a questi fanfaroni la possibilità di MALTRATTARE una delle costituzioni più invidiate al mondo è un lusso che non possiamo permetterci.